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«Ma non è un istinto del tutto naturale formare una coppia?» gli ho chiesto io. Ero stanco e confuso, mi vedevo davanti Caterina e Maria Blini: passavano attraverso questi discorsi e non riuscivo a fermare nessuna delle due. «Lo è», ha detto Polidori, «Ma per conto suo sarebbe un istinto temporaneo, che quando esaurisce la sua funzione si sposta o comunque si evolve. Invece cerchiamo di congelarlo nel frigorifero del matrimonio o della convivenza, farlo durare per tutta una vita com'era agli inizi. E socialmente più semplice, e costa meno energia, meno spazio, meno tempo, meno immaginazione». Gli ho detto: «Non so quante donne sarebbero disposte a fare le galline, come alternativa». «Forse dipende anche da chi è il gallo, no?» ha detto Polidori, con un sorriso nella voce. Ha detto: «Le donne sono diverse dagli uomini. Hanno dei meccanismi interiori totalmente diversi. Una delle idiozie peggiori degli anni Settanta è stata sostenere che uomini e donne sono identici. Le donne sono molto più complesse e più intelligenti e più sensibili degli uomini, ma hanno altri istinti e altri bisogni, cercano altre cose. Il loro istinto è di attaccarsi a un uomo solo, se è un uomo che ha abbastanza energia». «E se non ha abbastanza energia?» gli ho chiesto. «Allora niente», ha detto lui. «E' semplice». Si è messo a ridere; ha detto: «La poligamia non è mica per tutti, Roberto. Non lo è in nessuna società animale, e in nessuna società umana dove ancora esiste. E' solo per chi ha abbastanza energia e abbastanza forza e ingegno da potersela permettere. Se no creerebbe una confusione terribile». Parte di questi discorsi li avevo già trovati nei suoi romanzi; anche mentre leggevo non ero riuscito a capire quanto fossero paradossali o allegorici e quanto ci credesse davvero. Il suo tono oscillava continuamente tra il distacco e la partecipazione, l'ironia e la violenza. Pensavo a sua moglie Christine, alla pistola nel cruscotto davanti a me, al suo strano modo di trattare Cecilia la paracadutista, all'attenzione galante per Caterina. Lui ha detto: «Vorrei scrivere un altro libro su questo. Dovrebbe essere la storia di un matrimonio, e la storia dovrebbe disintegrarsi insieme al matrimonio, i frammenti andare in mille direzioni diverse. Solo che non ho la distanza necessaria, come era per te a Milano con la tua storia. La differenza è che invece di cambiare città io dovrei cambiare vita». Ma poi gli è passata la voglia di parlarne; ha infilato un altro dischetto nello stereo: Michael Bloomfield che suonava la chitarra elettrica con un'energia totalmente liquida, entro i contorni elastici di un blues in dodici battute. Quando finalmente abbiamo lasciato la macchina al paese e siamo arrivati alla casa-monastero con la Land Rover erano le due e mezza, i cani si sono messi tutti ad abbaiare. Polidori aveva preso dal baule della macchina una scatola rivestita di velluto, con il premio che avremmo dovuto ritirare e invece gli era stato già consegnato a Roma. L'ha aperta alla luce dell'ingresso per farmi vedere la statuetta dorata di un ariete impennato, con il suo nome inciso alla base; sorrideva. Poi ha tirato fuori di tasca due pacchetti di oreficeria, li ha guardati un attimo e me ne ha dato uno, ha detto: «Per Caterina. Dille che gliel'hai preso ad Arezzo». Gli ho detto: «Ma come?». Ho cercato di ridarglielo. Lui ha detto: «Piantala, Roberto. Non stare a raccontarle molti particolari. Dille solo che la cerimonia era noiosa e la città era bella, abbiamo mangiato molto». Gli ho detto: «D'accordo», ancora incerto con il pacchetto in mano; ci siamo dati il solito abbraccio forte e asciutto da compagni d'armi. Mentre salivo le scale Polidori ha detto: «Roberto?». «Cosa?» gli ho chiesto io, sporto alla balaustra di legno antico. «Grazie», ha detto Polidori. Quando io e Caterina siamo scesi a fare colazione, Christine Polidori era ancora più nervosa di come l'avevo vista fino a quel momento. La sentivamo sgridare la cameriera toscana e la bambinaia e i bambini in fondo al corridoio; poi è venuta a chiederci se avevamo bisogno qualcosa, e mi è sembrato che avesse uno sguardo ostile anche per noi. Mi ha fatto qualche domanda sulla premiazione ad Arezzo; ho cercato di rispondere nel modo più vago possibile, come mi aveva consigliato Polidori. A giudicare dal suo tono non doveva credermi molto, e non era per niente addolcita dal pacchetto di oreficeria che invece aveva tanto sconcertato Caterina. Io glielo avevo appoggiato sul cuscino appena svegli; lei aveva preso di mala grazia, ancora offesa perchè io e Polidori non l'avevamo portata con noi nella nostra escursione. Poi l'aveva aperto, e sotto la carta c'era una scatolina, e nella scatolina due meravigliosi orecchini antichi di filigrana d'oro. Li aveva lasciati quasi cadere per terra dalla sorpresa; aveva detto: «Sei pazzo?». Ma anch'io ero sconcertato, e non sapevo raccontare bugie; le avevo sorriso senza nessuna naturalezza, le avevo detto: «Un regalino». E la cosa non le aveva fatto solo piacere; anche adesso mentre mangiavamo fette biscottate e miele mi guardava leggermente allarmata, con i suoi meravigliosi orecchini alle orecchie. Christine ci ha detto che Polidori era andato a Firenze di mattina presto ad accompagnare suo figlio grande alla stazione. Ha detto: «Non ho idea di quando torni»; ed era chiaro che queste sparizioni sotto vari pretesti dovevano capitare spesso. Lui è tornato nel pomeriggio. Ha salutato di sfuggita sua moglie e i bambini, è venuto da me e Caterina vicino al camino. Sembrava di ottimo umore; ha detto: «Che bello trovare degli amici al caldo nella propria casa. Non è una bellissima stagione, l'inverno?». «Bellissima», ha detto Caterina, senza più la minima traccia di offesa per il giorno prima. Polidori le ha sfiorato un orecchino, come se lo vedesse per la prima volta; ha detto: «Roberto ha gusto, ma è quasi tutto merito delle tue orecchie. Anche due pezzetti di stagno ti starebbero bene». E di nuovo lo sguardo di Caterina mi ha provocato un piccolo guizzo di gelosia, ingiustificata e illegittima. Polidori ha detto: «Non andiamo a fare due passi, finchè c'è luce?». Siamo usciti tutti e tre, ben riparati con giacconi e stivali che erano a disposizione degli ospiti, abbiamo camminato attraverso il bosco insieme ai cani bianchi. Polidori dava l'andatura, come sempre; quando Caterina si è fermata per guardare un tronco d'albero spezzato le ha detto: «Forza, non restare indietro. Se vuoi fermarti fai come i cani, che prima corrono avanti». Lei si è mossa subito, rideva; mi sono chiesto come avrebbe reagito se fossi stato [ Pobierz caÅ‚ość w formacie PDF ] |
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