, I giorni dell'abbandono Elena Ferrante 

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Gianni che aprì la porta e si impietrì quasi sull'attenti. Alle sue spalle, quasi
nascondendosi dietro il fratello ma ridendo con gli occhi lucidi, si schierò Ilaria. Io
restai nel fondo del corridoio, accanto alla porta della cucina.
Mario entrò pieno di pacchi. Non lo vedevo da trentaquattro giorni esatti. Mi sembrò
più giovane, più curato nell'aspetto, persino più riposato, e lo stomaco si contrasse in
un modo così doloroso, che mi sentii vicina allo svenimento. Nel suo corpo, nel viso,
non c'era traccia della nostra mancanza. Mentre io portavo addosso - appena mi sfiorò
il suo sguardo allarmato ne fui certa - tutti i segni della sofferenza, lui non riusciva a
nascondere quelli del benessere, forse della felicità.
«Bambini, lasciate in pace vostro padre» dissi con voce falsamente allegra, quando
Ilaria e Gianni ebbero finito di scartocciare i regali e balzargli al collo e baciarlo e
litigare tra loro per accaparrarsene l'attenzione. Ma non mi diedero retta. Restai in un
angolo indispettita, mentre Ilaria si provava il vestitino che il padre le aveva portato,
tutta leziosa, e Gianni faceva saettare per il corridoio un'auto elettronica dietro cui
correva Otto latrando. Il tempo mi sembrò in ebollizione, come se a onde pastose
debordasse sul gas da una pentola. Dovetti tollerare la bambina che raccontava a
fosche tinte del bernoccolo e delle colpe che avevo, Mario che le baciava la fronte e
le assicurava che era cosa da niente, Gianni che esagerava le sue disavventure
scolastiche e gli leggeva ad alta voce un suo compito poco apprezzato dalla maestra,
il padre che glielo lodava e lo tranquillizzava. Che quadretto patetico. Alla fine non
ce la feci più, spinsi piuttosto in malo modo i bambini nella loro stanza, chiusi la
porta minacciando di punirli se fossero usciti di lì e, dopo uno sforzo notevole per
ridare alla voce un tono accattivante, sforzo che fallì miseramente, esclamai:
«Bene. Te la sei spassata in Danimarca? E' venuta anche la tua amante?».
Lui scosse la testa, arricciò le labbra, replicò con toni bassi:
«Se fai così, prendo le mie cose e me ne vado subito».
«Ti sto solo chiedendo com'è andato il viaggio. Non si può chiedere?».
«Non con questo tono».
«No? E che tono ho? Che tono devo avere?».
«Da persona civile».
«Tu sei stato civile con me?».
«Io mi sono innamorato».
«Io lo ero già. Di te. Ma tu mi hai umiliata e stai continuando a umiliarmi».
Abbassò lo sguardo, mi sembrò sinceramente desolato, e allora mi commossi, passai
a parlargli all'improvviso con affetto, non seppi farne a meno. Gli dissi che capivo la
sua situazione, gli dissi che mi immaginavo quanto fosse confuso; ma io - mormorai
con lunghe pause sofferte - per quanto cercassi di rintracciare un ordine, di
comprendere, di aspettare pazientemente che la tempesta passasse, a volte cedevo, a
volte non riuscivo. Quindi, per dargli la prova della mia buona volontà, estrassi dal
cassetto del tavolo di cucina il fascio di lettere che gli avevo scritto e glielo misi con
sollecitudine davanti.
«Ecco quanto ho lavorato» gli spiegai, «lì dentro ci sono le mie ragioni e lo sforzo
che sto facendo per capire le tue. Leggi».
«Adesso?».
«Quando se no?».
Spiegò con un'aria avvilita il primo foglio, scorse qualche riga, mi guardò.
«Le leggerò a casa».
«A casa di chi?».
«Smettila, Olga. Dammi tempo, ti prego, non credere che per me sia facile».
«Sicuramente è più difficile per me».
«Non è vero. E' come se stessi precipitando. Ho paura delle ore, dei minuti...».
Non so bene cosa disse di preciso. Se devo essere onesta, credo che abbia accennato
solo al fatto che, a vivere insieme, a dormire nello stesso letto, il corpo dell'altro
diventa come un orologio, "un contatore" disse - usò proprio questa espressione - "un
contatore della vita che se ne va lasciando una scia di angoscia". Ma io ebbi
l'impressione che volesse dire altro, certamente capii più di quanto in realtà avesse
detto, e con una crescente calcolata volgarità che prima lui cercò di respingere e poi
lo ammutolì, sibilai:
«Vuoi dire che t'angosciavo? Vuoi dire che a dormire con me ti sentivi invecchiato?
La morte la misuravi sul mio culo, su come era soffice una volta e su come è
diventato adesso? Questo vuoi dire?».
«Ci sono i bambini di là...».
«Di là, di qua... E io dove sto? A me dove mi stai mettendo? Questo voglio sapere! Se
ti angosci tu, lo sai quanto mi angoscio io? Leggi, leggi le lettere! Non riesco a
venirne a capo! Non capisco cosa ci è successo!».
Guardò le lettere con uno sguardo carico di repulsione.
«Se te ne fai un'ossessione non capirai mai».
«Sì? E come dovrei comportarmi per non farmene un'ossessione?».
«Dovresti distrarti».
Ebbi una brusca torsione interiore, mi venne la smania di capire se almeno si
ingelosiva, se teneva ancora al possesso del mio corpo, se poteva accettare
l'intrusione di un altro.
«Certo che mi distraggo» dissi assumendo un tono fatuo, «non pensare che me ne sto [ Pobierz caÅ‚ość w formacie PDF ]
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